Padre Sofronio, un monaco per il mondo

di Maxime Egger

“Io sono”
“Il Signore è ineffabilmente generoso, ma si dona a ognuno di noi nella misura in cui, liberamente, siamo pronti a riceverlo”, scriveva padre Sofronio. Il fatto che ci siano esseri umani che fin dalla nascita sono consumati dalla sete di assoluto è uno dei misteri della persona umana e della prescienza di Dio. Nato a Mosca nel 1896, in una grande famiglia ortodossa, Padre Sofronio fu certamente uno di questi uomini. Turbato dalle grandi questioni metafisiche fin dall’infanzia, Sofronio fu presto consapevole della tragicità dell’esistenza umana, grazie alla grande letteratura russa ma anche alla storia, che esplode nei massacri assurdi della Grande Guerra e nell’escatologia sanguinaria della Rivoluzione d’Ottobre. Ufficiale del genio, non andò al fronte, ma per due volte fu incarcerato dalla polizia bolscevica nella prigione Liubianka di Mosca.

Mentre il mondo attraversa l’orrore e la barbarie, Padre Sofronio sperimenta un grande tormento interiore causato dal “ricordo della morte”. Non il semplice “memento mori” caro alla tradizione ascetica, ma un tuffo vertiginoso dell’anima nel gorgo del nulla. Sentiva che con la “sua morte” sarebbe morto tutto ciò che la sua coscienza aveva fatto proprio: l’umanità, il cosmo e persino Dio. Esperienza potente da cui ottiene due sentimenti paradossali: un profondo senso della vanità dell’esistenza, e un’apertura “nel vuoto” al mistero della persona, capace di abbracciare il creato e l’increato, e all’Essere infinito. “Nel vuoto” perché, quando aveva diciassette anni, un mattino gli era venuta l’idea che l’assoluto non può essere “personale”, che l’eternità contenuta nel amore evangelico non è che sentimentalismo e “disprezzabile psichismo”. Abbandonato il Dio vivente della sua infanzia, si rivolge allora al misticismo dell’Oriente non cristiano. Pratica una forma di meditazione orientale e si sforza di svuotare la sua mente da tutte le “forme relative”. Confondendo l’individuo con la persona, serve, come dirà più tardi, il “Dio dei filosofi, che in realtà non esiste”.

Parallelamente si dedica appassionatamente alla pittura, che ha studiato presso la Scuola Nazionale di Belle Arti di Mosca. Ma i disordini della rivoluzione bolscevica perturbano il suo lavoro e decide di emigrare. Dopo un passaggio in Italia e in Germania, giunge a Parigi nel 1922. Subito gli viene offerta la possibilità di esporre nei templi più illustri dell’arte moderna, al Salon d’Automne e al Salon des Tuileries. Ricerca dell’invisibile dietro il visibile, la pittura, anche se gli procura “istanti di gioia raffinata”, non lo soddisfa. “I mezzi di cui disponevo”, dovrà ammettere, “erano incapaci di restituire la bellezza che regna nella natura”.

Poi, un giorno, Colui che padre Sofronio aveva abbandonato gli Si manifesta. Esperienza sconvolgente alla quale un testo della Bibbia dà il suo vero senso: “Io sono colui che sono” (Esodo 3, 14). Come può Dio, che è senza inizio, Creatore e padrone dell’universo, dire “Io sono”? “Svolta nella storia umana”, questa rivelazione fatta a Mosè dall’Essere assoluto come “persona”, “ipostasi”, è per padre Sofronio una vera via di Damasco. “Grande è la parola ‘io’”, scrive. “Essa designa la persona. Solo la persona vive realmente. Dio è vivo, perché è ipostatico. Il contenuto di questa vita è l’amore. Poiché Dio dice ‘Io’, l’uomo può dire ‘tu’. Nel mio ‘io’ e nel Suo ‘tu’ si trova l’intero Essere, sia questo mondo che Dio. Fuori e al di là di Lui non c’è nulla. Se io sono in Lui, allora “Io sono”, ma se sono fuori di Lui, muoio”.

“Realtà suprema e primordiale dell’Essere”, questo principio ipostatico  ha un nome e un volto, tremendo per il Suo potere e la Sua santità: Gesù Cristo. “Senza di lui non conoscerei né Dio né l’uomo”, scrive padre Sofronio, contemplando nel Figlio del Padre il progetto pre-eterno di Dio sull’uomo: la salvezza come deificazione. “L’uomo è più di un microcosmo, è un piccolo dio.” Poiché Dio, assumendo la condizione di servo, si è reso intutto simile all’uomo, l’uomo ha la possibilità di diventare in tutto simile a Dio. Per Padre Sofronio la santità non è di ordine etico, ma ontologico: “Non è santo colui che ha raggiunto un livello elevato nella morale umana o in una via di ascesi e anche di preghiera (anche i farisei digiunavano e recitavano lunghe preghiere), ma colui che porta in sé lo Spirito Santo”.

Gioia infinita, questa auto-rivelazione di Dio è anche per Padre Sofronio la fonte di un “dolore che sarà il filo conduttore di tutta la sua vita in Dio”. Perché, rivelandoSi come egli è, Dio gli permette di vedersi come lui è, nella profondità più intima del suo essere. Illuminando la sua anima, lo Spirito Santo gli fa vedere la profondità del suo peccato e della sua tenebra interiore. Peccato non come trasgressione di una norma etica, ma come ignoranza del vero Dio, rifiuto dell’amore del Padre, “separazione dalla fonte ontologica del nostro essere”. Scoprendo con orrore il suo “cadavere interiore”, padre Sofronio entra allora “nell’inferno del pentimento”. Un dono del Cielo, “più grande di quello di vedere gli angeli”, che egli considera come la sua terza nascita, dopo quella secondo la carne e quella secondo lo Spirito. Consapevolezza della propria ndegnità, vergogna, disperazione, odio di sé, i sentimenti più estremi lo opprimono. Come Pietro, dopo aver rinnegato il Salvatore, versa lacrime “che spezzano le ossa”. Tuttavia, piuttosto che distruggerlo, questa sofferenza metafisica, peggiore del dolore fisico più forte, rifonda la sua natura creata e fa sorgere in lui “un altro sguardo, un altro ascolto, l’energia di una vita nuova”.

La luce increata
Dal Fuoco che brucia le passioni e purifica alla Luce che illumina l’anima: padre Sofronio riceverà la grazia di questo passaggio nel 1924. La vigilia di Pasqua del 1924, subito dopo la Santa Comunione, Dio lo visitò e gli fece contemplare la luce increata del Suo regno. “L’ho percepita come un tocco dell’eternità divina nel mio spirito. Dolce, piena di pace e di amore, questa luce è rimasta con me per tre giorni. Essa ha dissipato le tenebre del nulla che si alzavano di fronte a me. Risorgevo, e nello stesso tempo, dentro di me e con me, tutto il mondo risorgeva. L’unica vera schiavitù è quella del peccato. L’unica vera libertà è la risurrezione in Dio”.

Insieme alla conoscenza pratica della mistica orientale, quest’esperienza della Luce increata, che non cesserà di approfondire, darà a Padre Sofronio una visione penetrante delle diverse modalità di contemplazione: divina, umana o demoniaca. Il suo discernimento lo farà diventare un interlocutore privilegiato per molti avventurieri dello spirito. Nessuno ha mostrato meglio di lui le illusioni e i pericoli inerenti a certe forme di pseudo-gnosi, e mistiche naturali, basate sui metodi psicotecnici: la confusione tra la Luce increata (che viene da Dio) e la luce creata dall’intelletto (che è soltanto il suo riflesso), auto-deificazione attraverso l’identificazione della natura umana con quella di Dio,  pacificazione interiore che non è spesso che una forma di “quietismo”, incompatibilità tra la meditazione (rilassamento), e la preghiera (tensione estrema), dissolvimento della persona umana nel “oceano immutabile dell’assoluto impersonale”. Per padre Sofronio, “la vista della Luce increata è indissolubilmente legata alla fede nella divinità di Gesù Cristo”. Ne deriva e la conferma. Numerosi sono i guénoniani, schuoniani, buddhisti e altri gnostici che il Cristo ha convertito attraverso il loro incontro con padre Sofronio.

Evidentemente, la Pasqua del 1924 segna una svolta nel cammino di Padre Sofronio. Lo Spirito Santo, come dirà, “ha riversato nel suo cuore un’ispirazione che non lo abbandonerà più”. Gli ha dato la ”folle audacia” necessaria per essere cristiano. Una nuova vita inizia. Si immerge fino in fondo nella preghiera, “incontro vivo della nostra persona creata con la Persona divina”. Si sente di fronte a una scelta radicale: o l’adozione filiale da parte di Dio Padre o l’oscurità del non-essere. “Non c’è via di mezzo”, considera. Nel suo cuore, una terribile battaglia oppone il suo amore per Cristo e la sua passione per l’arte, che “lo possiede come uno schiavo”. Dopo mesi di lacerazione interiore, come Abramo pronto a sacrificare ciò che ha di più caro, abbandona la pittura.

Desideroso di dedicare la sua vita a Dio, padre Sofronio entra allora all’Istituto Saint-Serge, appena fondato a Parigi. Ma gli studi non lo soddisfano. Egli trova che lì si parla meno di Dio che su e intorno a Dio. Fino alla fine della sua vita manterrà un atteggiamento critico verso la teologia accademica. Utile alla vita storica della Chiesa, la scienza teologica non lo è, secondo lui, nè alla salvezza personale, né alla vera conoscenza di Dio, per il motivo che essa “ci offre solo una comprensione intellettuale, ma non ci eleva veramente nel dominio dell’Essere Divino”. Per padre Sofronio, discepolo fedele di San Silvano (1866-1938), “il cristianesimo non è una dottrina, ma la vita”. La teologia non è un esercizio speculativo, ma “lo stato di essere ispirati dalla grazia divina”. La conoscenza spirituale non è un sapere, ma “l’esperienza esistenziale della comunione con Dio”. Primato dell’esperienza esistenziale dunque, senza che per altro escluda la necessità essenziale di una conoscenza dogmatica forte. Come scrive padre Sofronio, “una vita giusta è condizionata da delle concezioni corrette su Cristo e sulla Santa Trinità. Viceversa, la minima deviazione dalla verità nella nostra vita interiore snatura la nostra prospettiva dogmatica”.

Nel 1925, padre Sofronio parte per il Monte Athos e diventa monaco nel monastero russo di San Panteleimon. Per lui, il monachesimo è, secondo l’espressione di Teodoro Studita (sec VIII-IX) che ama citare, “la terza grazia”. È la vita celeste sulla terra, il cuore spirituale della Chiesa. Presto riceve la grazia della preghiera incessante, “dono di Dio collegato a un altro dono: il pentimento”. Abitato, trasfigurato dalla preghiera, diventa preghiera, colonna di intercessione tra la terra e il cielo. Il monaco, per lui, è l’icona della Madre di Dio. È colui che prega per il mondo intero, secondo il sacerdozio regale e profetico di Melchisedec, sacerdozio universale e accessibile a tutti i cristiani, spiritualmente superiore al sacerdozio gerarchico della tribù di Aronne.

Al Monte Athos, padre Sofronio fa anche l’esperienza della perdita della grazia. Segnato dalla “legge del peccato”, l’uomo non può nella vita terrena “conservare pienamente il dono dell’amore di Dio”. Presto o tardi, vittima delle sue passioni, sente l’abbandono dello Spirito Santo nella sua forma tangibile. Basta un niente, un semplice movimento dell’orgoglio, un ritorno compiacente della coscienza su se stessa, perché il cuore si chiuda e lo spirito si oscuri. La caduta si verifica talvolta è tale che l’uomo sprofonda nell’accidia, malattia spirituale che padre Sofronio definisce come “mancanza di preoccupazione per la propria salvezza”.

A seconda del grado della grazia ricevuta in precedenza, questo abbandono di Dio può essere vissuto come un vero “inferno”: un’angoscia, uno sconforto, un dolore vicini a quelli che Cristo ha conosciuto nel Getsemani e sul Calvario. Per ritrovare la grazia, in altre parole per trasfigurare il nostro essere spogliandolo dalle sue passioni, è necessaria un’ascesi, una lotta interiore, un “processo di chénosi totale” attraverso il quale si esprima il nostro desiderio di seguire Cristo, di somigliargli in maniera più perfetta. “L’amore di Cristo è una beatitudine con la quale niente al mondo può essere confrontato”, scrive padre Sofronio. “Ma, allo stesso tempo, amare con l’amore di Cristo significa bere al suo calice. L’amore di Dio è chenotico. Egli ci ha comandato di amarlo fino all’odio di se stessi”.

Tenebre e speranza

Dono gratuito della grazia, abbandono da parte di Dio, riconquista della grazia. Per Padre Sofronio, tutta la vita spirituale è in questo triplice movimento. Lui stesso non cesserà mai di vivere “allo stesso tempo le tenebre della morte e la speranza in Dio che ci salva”. Questa oscillazione tra inferno e luce, questa condizione paradossale in cui l’anima viene assunta in cielo e, allo stesso tempo, gettata nelle valli oscure dell’inferno, segnerà il suo lungo camino “attraverso i tormenti” e diventerà una delle chiavi della sua spiritualità.

Da questa esperienza di fuoco, padre Sofronio non potrà tuttavia trarre vantaggio se non quando, evento capitale nella sua vita, nel 1930 incontra il beato Staretz Silvano. Subito Sofronio, intellettuale colto e ferito dalla metafisica, si mette ai piedi di questo uomo semplice di origine contadina, quasi analfabeta. Vivendo al massimo grado l’amore per i nemici, vicino all’impassibilità, lo staretz Silvano aveva sperimentato gli stati spirituali più estremi: la visione disperata della sua condanna in eterno, seguita, in un momento d’illuminazione, dall’incontro con Cristo nella sua Luce splendente. Intorno al 1905, mentre Einstein annunciava le rivoluzioni del XX secolo con la sua teoria della relatività, questo santo monaco aveva ricevuto da Cristo una parola di salvezza per il nostro tempo: “Tieni il tuo spirito all’inferno e non disperare”.

Per padre Sofronio, questo richiamo a una permanente autocondanna è l’espressione più perfetta della via chenotica del Cristo, il cammino più diretto e più sicuro verso la perfezione. È abbassandoci come indegni di Dio, condannandoci ai tormenti eterni dell’inferno che annienteremo in noi ogni passione, che renderemo il nostro cuore umile e libero di ricevere l’amore di Dio. Poiché “una cosa è l’umiltà ascetica e tutt’altra cosa è l’umiltà di Cristo”. La prima – relativa – consiste nel vedersi come il “peggiore di tutti”, ed è il risultato di una lotta  terribile contro i pensieri. La seconda – assoluta –  è “un attributo dell’amore di Dio che si offre senza misura”, è l’azione dello Spirito Santo in noi, quando viviamo l’intera umanità, l’Adamo totale, come noi stessi.

Lo staretz Silvano si addormentò nel Signore il 24 settembre 1938. Nella primavera successiva, padre Sofronio andò a vivere come eremita in una cella a Karoulia, nel cuore del “deserto” atonita. Qui mette alla prova la fedeltà suo amore per il Padre e approfondisce la sua conoscenza della realtà divina, e soprattutto va fino al fondo del suo pentimento e della sua chénosi. Nella solitudine, vive momenti di preghiera pura. In un atale preghiera, faccia a faccia con Dio, senza la distrazione di immagini o pensieri, l’intelletto e il corpo si uniscono perfettamente nel cuore, lo spirito è trascinato nell’infinito immenso, luminoso e senza nome dell’eternità divina, oltre i confini dello spazio e del tempo. A questo proposito, il procedimento letterario utilizzato da padre Sofronio nell’ultimo capitolo del suo libro Preghiera, esperienza della vita eterna, non inganna nessuno: il “venerabile asceta” che egli interroga per essere iniziato ai misteri della Luce del Tabor gli somiglia troppo per non essere lui stesso. Attraverso la parola del vecchio “giudicato degno di contemplare questa luce” –  figura dietro la quale si nasconde e che manifesta la sua umiltà –  è evidentemente la sua propria esperienza che ci comunica.

La preghiera per il mondo

Ma, nuovco paradosso, mentre l’uomo “sperimenta la presenza del Dio Vivente fino a dimenticare il mondo”, la preghiera allarga il suo cuore e la sua coscienza fino alle dimensioni del cosmo. Là, nel “deserto” athonita, padre Sofronio sente l’eco della guerra nella profondità della sua caverna. Di notte, in particolare, il grido dell’umanità sofferente gli trafigge il cuore. Come lo staretz Silvano, prega per il mondo intero, per l’Adamo totale, piangendo come per se stesso. In queste lacrime, dono di Dio, vede un riflesso della preghiera di Cristo nel giardino del Getsemani, quando “triste fino alla morte, il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano al suolo” (Mt 26, 38 e Lc 22, 44). Capisce allora il profondo significato della parola di Cristo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Questo comandamento, secondo lui, non rivela tanto la misura con la quale dobbiamo amare, quanto l’unità ontologica di tutti gli uomini, spezzata dal peccato originale ma già restaurata da Cristo mediante la Sua incarnazione, morte e risurrezione, e che ognuno di noi deve realizzare nell’amore. Amare con l’amore di Cristo significa introdurre nella propria esistenza personale la vita di tutta l’umanità, prendere su di sé tutto il male del mondo come il proprio male, includere nel pentimento per i propri peccati i peccati del prossimo.

“Pregare per gli uomini significa versare il proprio sangue”, diceva san Silvano. Una tale preghiera, però, non si realizza da sola. Essendo un dono dello Spirito presuppone un pentimento perfetto. Essenziale in quanto salvifica, essa è anche a rischio di impotenza. Poiché, come diceva Padre Sofronio, “niente e nessuno può privare l’uomo della sua libertà di cedere al male, di preferire l’oscurità alla luce. Gli uomini costruiscono essi stessi il proprio inferno”. E l’inferno peggiore, il più grande peccato, è la guerra. Contro questa maledizione cosa può fare un cristiano? In questa fine di secolo, nella quale fanatismi di ogni genere, religiosi, nazionalisti ed etnici, insanguinano le terre dell’antica cristianità, è necessario più che mai ricordarsi del duplice messaggio di san Silvano e di padre Sofronio. In primo luogo, l’universalità del Verbo incarnato di Dio: “Io non conosco un Cristo greco, russo, inglese, arabo”, dice padre Sofronio. “Cristo, per me, è tutto, è l’Essere sovracosmico. Quando limitiamo la persona di Cristo, abbassandola per esempio sul piano delle nazionalità, perdiamo tutto e precipitiamo nelle tenebre”. Poi, l’amore per i nemici. Per padre Sofronio questo comandamento di Cristo è né più né meno che la pietra angolare del Vangelo. Esso è il solo rimedio per tutti i mali, il criterio ultimo e insuperabile della vera fede, della vera comunione con Dio, della verità nella Chiesa. Chi ha la forza dell’amore per i nemici conosce Cristo in spirito e verità. Chi al contrario non ce l’ha è ancora prigioniero della morte, non è ancora “ortodosso”, ovverro non conosce ancora Dio “come Egli è”.

In sostanza, da cosa si riconosce l’amore per i nemici? Dal fatto che si preferisce essere uccisi piuttosto che uccidere, dice padre Sofronio. “Non dobbiamo uccidere i nostri nemici, ma vincerli con l’amore. Dobbiamo ricordarci che il male assoluto non esiste, che è assoluto solo il Bene che non ha inizio. Il comandamento di non resistere al malvagio (Mt 5, 39) è la forma più efficace di lotta contro il male”. Lottare con la forza significa sostituire una violenza a un’altra violenza, mantenere quindi la dinamica del male. La vittoria ottenuta con la forza è sempre una vergogna per l’umanità, e per sua natura non può durare. La vittoria dei martiri e dei santi, al contrario, è vera gloria e rimane per sempre per i secoli dei secoli. Lo prova la storia recente della Russia, per la quale padre Sofronio non cessava mai di pregare e della quale aveva notato il carattere eminentemente paradossale: sofferenze, crimini e drammi senza fine sulla terra, messe di santi in cielo e nella chiesa! “Non c’è nessuna tragedia in Dio”, ha scritto e ripetuto in tutti i modi Padre Sofronio nel libro La preghiera, esperienza della vita eterna. “La tragedia esiste solo per l’uomo il cui sguardo non supera i confini della terra. Cristo ha vissuto il dramma di tutta l’umanità, ma in lui stesso non c’era nessuna tragiedia”. Soltanto una pace senza misura…

Nel 1941, padre Sofronio è ordinato ieromonaco preso il monastero di San Paolo, e un anno dopo è elevato alla dignità di padre spirituale. Da quel momento sarà confessore in diversi monasteri. È l’inizio di una paternità spirituale che non ha cessato di essere feconda, neppure dopo il suo ritorno in Europa occidentale nel 1947. Ironia della sorte e segno della Provvidenza, lui che era stato un ufficiale delle truppe che si occupavano della mimetizzazione, il cui scopo era rendere invisibile il visibile, rendeva ora visibile l’invisibile per migliaia di discepoli. Padre Sofronio era un vero staretz, e il capitolo del libro La preghiera, esperienza della vita eterna dedicato alla paternità spirituale lo conferma. Era un uomo in Cristo, preoccupato di incarnare il Logos nella storia e nel cosmo, di trasfigurare la storia e il cosmo nella Luce del Logos. Un uomo del silenzio, attraverso il quale ha parlato la Parola di Dio, e che attraverso le parole ispirate che ha lasciato nei suoi scritti ancora ci aiuta a nascere a noi stessi e alla vita in Cristo. Un uomo della parola, ardente come il salmista, in grado di parlare a ognuno, dal bambino al più sofisticato filosofo passando per l’operaio più semplice. Un uomo-preghiera il cui primo pensiero era per Dio, dal quale riceveva la risposta per le mille e una domande dei suoi visitatori. Un uomo che portava in  sé lo Spirito Santo, capace di leggere i cuori delle persone, condividere le loro gioie e le loro sofferenze, per poi farli aprire all’opera della grazia. Parlare con padre Sofronio significava essere irresistibilmente portati a uno spiazzamento, un superamento: dallo psicologico allo spirituale, dai dettagli e dalle inevitabili cadute della vita quotidiana all’”unico necessario”, dal nostro piccolo “io” alle dimensioni cosmiche dell’Adamo totale, dalla logica del mondo alla “prospettiva inversa” del Vangelo.

Verso la fine del 1943, dando seguito alle richieste dei monaci del monastero di San Paolo, padre Sofronio lascia Karoulia per l’eremo della Santa Trinità, nei pressi di Nea Skiti. Le condizioni di vita sono qui molto dure, perché la grotta, isolata e dotata di una piccola cappella, soffriva di abbondanti infiltrazioni d’acqua. La salute di Padre Sofronio ne risente e dopo due anni lo staretz deve rinunciare ad abitare quella cella. Vive, per un po’ nell’eremo di Sant’Andrea, che appartiene al monastero di Vatopedi. È in quel periodo che sente la necessità interiore di far conoscere al mondo l’esperienza spirituale di San Silvano. Malato, turbato nella sua esichia dal clima anti-slavo che regna al monte Athos, lascia la Santa Montagna per la francia nel febbraio 1947. Un anno dopo pubblica gli sctitti di San Silvano, ai quali aggiunge una profonda analisi della sua vita e del suo pensiero. Poiché, udite dall’alto, “le parole di vita eterna” di Silvano sono così semplici, così trasparenti, che la loro profondità teologica, l’alto grado di perfezione spirituale che testimoniano, sfuggono alle più grandi intelligenze dell’epoca. Tradotta in seguito in molte lingue, l’opera – Starets Silouane, Moine du Mont Athos (Éditions Présence) [in italiano Silvano del monte Athos (1866-1938). Vita, dottrina, scritti, Gribaudi] – è diventata un classico della letteratura ascetica ortodossa. Per Padre Emiliano, l’abate del monastero Simonopetra del Monte Athos, essa è una “nuova Filocalia”. L’intuizione di padre Sofronio e la sua testimonianza porteranno i loro frutti. Nel 1988, lo staretz Silvano sarà canonizzato dal Patriarca di Costantinopoli.

L’unico necessario

Vittima di una malattia grave, dopo un difficile intervento che lo ha lasciato debilitato, nel 1951 Padre Sofronio non può più tornare al Monte Athos, dove, a causa della guerra fredda, la condizione dei monaci slavi è peggiorata. Rimane quindi in quella piccola Russia dell’immigrazione che era Saint-Geneviève-des-Bois, vicino a Parigi. Attratte dal suo irraggiamento spirituale, molte persone con gli orizzonti culturali più diversi si riuniscono attorno a lui. Nel 1959, dopo aver cercato invano in Francia un luogo adatto per iniziare un’esperienza di vita comunitaria, padre Sofronio parte per l’Inghilterra con alcuni discepoli. Il gruppo si stabilisce a Tolleshunt Knights (Essex), in una vecchia casa parrocchiale in disuso. Nasce così il Monastero di San Giovanni Battista, che prende il nome della sua prima cappella, ornata di icone dipinte da padre Gregoire Krug.

Prima cenobita, poi eremita, infine staretz nel cuore del mondo: il percorso di Padre Sofronio è esemplare. In Gran Bretagna, tutti i suoi sforzi sono finalizzati alla costruzione di una “famiglia spirituale” unita nell’amore e nella ricerca dell’”unico necessario”. Per chi scopre il suo monastero è difficile non pensare allo spirito mistico di San Sergio di Radonez (secolo XIV) o di San Nilo Sorski (secolo XV). Come quest’ultimo, nonostante la sua diffidenza verso la teologia accademica, egli dà un grande valore all’attività intellettuale. Come per lui, il rispetto per l’unicità della persona prevale sulla regola. Non è il typicon, l’insieme di regole e rituali dalla Chiesa che crea l’unità della comunità, ma la volontà e la piena coscienza di vivere nello Spirito di Cristo. Non il rispetto delle prescrizioni alimentari esteriori, ma la lotta interiore contro i pensieri e l’attenzione dell’intelletto alla vita della Santa Trinità sono il senso e l’essenza del digiuno. L’ascesi non è uno scopo in sé, ma un mezzo per liberarci dal peccato, per purificare il cuore, ricevere la grazia, conformare la nostra volontà a quella di Dio, “acquisire l’amore che ci è stato comandato da Cristo”. Il grande pericolo di una regola, nella vita monastica e altrove, è quello di incoraggiare la persona a mettersi in regola con se stessa, a sviluppare una “coscienza come lo stretto dei Dardanelli”, troppo ristretta per cogliere “la maestà sovracosmica di Cristo”. L’unica regola valida in realtà è Cristo, con il quale, a rigore, non possiamo mai “essere in regola” e di fronte al quale il nostro pentimento non avrà fine sulla terra.

Per questo il monastero di  San Giovanni Battista non avrà regole, ma solo un orario. Una strutturazione della giornata in tre tempi: il pasto, il lavoro e soprattutto la preghiera, liturgia e invocazione del Nome. Per padre Sofronio, la liturgia non era semplicemente “un atto di fede rispettosa, ma la contemplazione del Dio-uomo all’opera, la Pasqua del Signore sempre presente con noi”. Diceva: “Se la salvezza in Cristo è l’unico scopo della nostra vita, tutto ciò che facciamo può diventare atto di preghiera. La nostra vita quotidiana deve essere una liturgia ininterrotta”.

Il fondamento spirituale del monastero di San Giovanni Battista era, naturalmente, l’insegnamento di San Silvano. Non la ricerca di stati mistici particolari, di contemplazioni sublimi, ma piuttosto una vita semplice, eucaristica, evangelica. Alla sequela di Cristo “ovunque Lui vada” (Ap 14, 4). Se il fine è chiaro – raggiungere la salvezza, essere deificati – il mezzo non lo è di meno: fare dei comandamenti di Cristo la legge unica e immutabile dell’essere Per padre Sofronio, ispirato da san Gregorio Palamas (secolo XIV), i comandamenti non sono delle norme etiche, ma delle “energie divine”. Sono il riflesso sulla terra della Vita eterna: “Dimorando nei suoi comandamenti, diventiamo organicamente simili al Cristo. La sua vita diventa la nostra vita, la sua coscienza la nostra coscienza, il suo pensiero il nostro pensiero”.

I comandamenti di Cristo, che aprono le porte dei cieli qui sulla terra, padre Sofronio li sintetizzerà in una sola formula, liturgica, che non cesserà di ripetere: “Sforzatevi di trascorrere la vostra giornata senza peccato”. Senza peccato, cioè santamente. Senza ferire il prossimo, ma mettendosi al suo servizio e assumendo le sue eventuali debolezze. Nella coscienza, tesa all’estremo, della presenza permanente e invisibile di Dio, qui e ora: “Vegliate affinché non ci sia nulla d’impersonale nella vostra vita. Siate attenti a vivere come se doveste rispondere di ogni movimento del cuore e dell’intelletto davanti a tutta l’umanità. Che il vostro spirito rimanga, giorno e notte, là dove è Cristo”. Impegnativo fino all’estremo, questo atteggiamento interiore implica una lotta instancabile contro le passioni e le loro energie cosmiche: i pensieri. È a questa cultura dello spirito, vera “scienza delle scienze” per la quale non si può ricevere un diploma che nell’aldilà, che padre Sofronio, il quale ne era un maestro, esortava i suoi figli spirituali.

Sforzarsi di vivere senza peccato, assumere su di sé la debolezza degli altri. Semplice e profondo, questo programma spirituale era anche, per Padre Sofronio, la via per l’unità dei cristiani. “Che ognuno, là dove Dio lo ha posto, fatichi per acquisire lo Spirito Santo, e Dio farà il resto.” Per diverse ragioni  padre Sofronio non credeva minimamente nel ecumenismo istituzionale, ma viveva, nell’accoglimento e nella carità, l’ecumenismo del cuore. Lo dimostrano i circa mille ospiti, un gran numero nei quali non ortodossi, che il monastero di San Giovanni Battista accoglie ogni anno. Attraverso la preferenza di un’iconografia leggermente naturalistica, la preoccupazione di celebrare la liturgia nelle lingue vernacolari, la costituzione in ufficio della preghiera di Gesù, l’importante lavoro di traduzione svolto dai suoi discepoli, il dialogo e l’amicizia spirituale con molti cristiani di altre confessioni, padre Sofronio è stato, per citare l’espressione di Olivier Clément, un vero “passatore” tra l’Oriente e l’Occidente cristiano, uno dei grandi testimoni di questo secolo dell’universalità dell’Ortodossia.

Dopo un inizio difficile, in un ambiente al tempo stesso indifferente e sospettoso, il monastero di San Giovanni Battista, che nel 1965 entra a far parte della giurisdizione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, crescerà fino a contare oggi circa venticinque monaci e monache di dodici nazionalità diverse. Ritrovando i suoi vecchi carismi, padre Sofronio apre un laboratorio di iconografia, e insieme ai suoi monaci e soprattutto alle sue monache, orna di affreschi il refettorio e la nuova chiesa, dedicata oggi a San Silvano. Prende anche la penna e scrive libri e articoli. In francese, pubblica Sa vie et la mienne (Cerf, 1981), La felicité de connaître la voie (Labor et Fides, 1988), De vie et d’esprit (Le Sel de la Terre, 1992) e soprattutto la sua autobiografia spirituale: Voir Dieu tel qu’il est (Labor et Fides, 1984). [L’ultimo di questi libri è stato edito anche in Italia, con il titolo Vedremo Dio com’è, da Servitium; sono inoltre disponibili in italiano: Ascesi e contemplazione, Servitium; Le omelie, Città Nuova.]

Monaco, eremita, sacerdote, confessore, padre spirituale, fondatore di un monastero, iconografo, autore liturgico, scrittore, “missionario”. I carismi di padre Sofronio furono innumerevoli, e la sua personalità molteplice fu di conseguenza profondamente paradossale. Se la sua vita spirituale fu come una “linea ad alta tensione” tra il Giardino di Getsemani e il Monte Tabor, la sua attività apostolica si è svolta tra nova et vetera, novità e tradizione. Erede di sant’Ireneo di Lione (sec. II) nella sua lotta contro lo gnosticismo e nella visione “ricapitolatrice” dell’Adamo totale, discepolo di san Macario l’Egiziano (sec. IV) nella concezione della grazia, cugino di san Massimo il Confessore (sec. VI-VII) nella sua duplice natura di asceta e metafisico, fratello di san Simeone il Nuovo Teologo (sec. X-XI) nella devozione verso il suo maestro e nella sua verve autobiografica, palamita nel suo avvicinamento alla luce increata ed ai comandamenti di Cristo, figlio della grande tradizione russa di un Cristo chenotico, padre Sofronio è interamente immerso nella tradizione della Chiesa. Ma “tradizione” non era per lui semplicemente sinonimo di ripetizione e conservazione. Così non ha esitato a immaginare nuovi simboli (la terra al centro del cosmo, sormontata da una croce bizantina), a rinnovare l’iconografia (Giuda che abbandona l’Ultima Cena), a creare preghiere liturgiche, a permettere la creazione di una comunità monastica “doppia”, composta da uomini e donne. Una “tradizione” che significa creazione nello spirito e riappropriazione personale!

Padre Sofronio, per riprendere una sua frase, è entrato “nel silenzio e nella Luce dell’eternità” l’11 luglio 1993. Stava per compiere novantasette anni. “Come è possibile unire lo spirito, che è somiglianza dell’Assoluto, la terra?”, si domandava. Per tutta la sua vita era stato impegnato dal mistero dell’uomo, “spirito” puro e libero in un corpo sottomesso alle forze cosmiche. Si può dire che egli abbia vissuto questo mistero con tutto il suo essere, fino alla fine. Tutti quelli che lo hanno incontrato poco prima della sua morte sono stati colpiti dal contrasto tra l’estrema debolezza del suo corpo, che non era più in grado di sorreggerlo, e la vivacità fiammeggiante del suo intelletto. Come ebbe a dire uno dei suoi amici, “la fiamma dello Spirito ha bruciato e trasfigurato in lui anche l’ultima particella di materia”.

Estratto dal libro di padre Sofronio, La prière, expérience de l’éternité, Éditions du Cerv – Le Sel de la Terre, 1998, riprodotto in http://www.pagesorthodoxes.net/saints/silouane/sophrony-vita.htm. Traduzione di padre Gabriel Popescu e Renato Giovannoli.

 

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